L'entrata di Cristo a Bruxelles; Senza nome


Due racconti pubblicati dalla rivista Elle rispettivamente nel 2004 e nel 2001, e poi riuniti in questa piccola raccolta del 2008, che danno uno spaccato efficace della scrittura di Amélie Nothomb e fanno venire voglia di leggerne ancora.
Il primo narra di un arrampicatore sociale che si macchia di un atroce delitto in nome dell'eredità, e della sua successiva e bislacca redenzione. Il secondo racconta l'avventura di un uomo qualsiasi che si inoltra nel profondo nord e rinuncia al proprio nome per avere una vita piena d'amore (di più non si può e non si sa dire). Entrambi i racconti sono ben oltre i  limiti dell'assurdo, ma modulano due aspetti diversi dello stesso tema portante: la relazione affettiva che lega due esseri a volte si fonde e confonde con il dolore e con la prigionia. Un tema abusato nella letteratura, eppure la Nothomb riesce a darne visioni originali attraverso tagli particolarissimi: nel primo racconto è il forte senso estetico che detta il ritmo della narrazione, offrendo quadri di un romanticismo ed una perfezione strazianti, come la scena in cui i protagonisti si nutrono di gamberi e birra in fondo al pontile di Ostenda. Nel secondo invece, il tema amoroso è usato come critica alla società che si ostina a rinnegare il proprio lato sentimentale, arrivando così a scoprirsi totalmente assuefatta ad esso già dopo il primo involontario 'assaggio', ed è costretta a soccombere non riuscendo a rinunciarvi.
Lo stile della narrazione è sincero in modo disarmante, crea persino imbarazzo nel lettore. La Nothomb dilata le parole e propone intrecci elaborati e ampiamente argomentati; i personaggi non sono affatto banali, ma riccamente connotati, coerenti alla loro indole psicologica nelle azioni e nei pensieri. In tutto questo trovano spazio anche i giudizi dell'autrice, sempre lucidi, dissacranti e pieni di tutta l'umanità possibile, che proiettano il lettore sull'orlo di un abisso di riflessioni paurose. Una piccola raccolta che scuote, lasciandoci realistiche e impietose descrizioni dell'amore come espiazione e ribellione, quali a nostro avviso non se ne vedevano dai tempi di Cime Tempestose.

Consigliato a chi ha deciso che non vuole più innamorarsi.

L'entrata di Cristo a Bruxelles; Senza nome
Amélie Nothomb
I libri della domenica
Il Sole 24 ORE
Milano 2011
79 pagine

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Cuore di cane


Scritto nel 1925 ma pubblicato solo postumo per via della censura sovietica, Cuore di cane è da sempre considerato un ritratto insolente della società moscovita post-rivoluzionaria. In effetti ne ha tutti i connotati perché i personaggi non sono altro che grottesche maschere umane ricche di simboli, mentre il cane sembra essere l'unico a possedere un cuore.
La storia assurda è un'operazione chirurgica in cui un famoso luminare impianta ghiandole seminali e ipofisi umane nel cane randagio Pallino, che aveva raccolto morente dalla strada e nutrito fino a farlo diventare un languido cagnone da salotto. Le conseguenze dell'infausto trapianto sono terribili, in quanto l'animale si tramuta in un uomo volgare e infido, il signor Pallinov, senza alcuna educazione né remora, né codice morale. Egli stringe amicizie discutibili ed arriva persino a denunciare il suo creatore, che è rimasto in effetti piuttosto borghese, come foriero di idee e atteggiamenti controrivoluzionari. Facile da qui la lettura dell'ominide come uomo della NEP che parla di 'prendere tutto e dividerlo' ma poi cura i suoi interessi egoistici senza alcun rispetto per amicizie persone o ideali. La soluzione estrema praticata dal medico, dopo innumerevoli tentativi diplomatici, è quella di una contro-operazione, che dunque simboleggia il ritorno alla società tradizionale. 
Tuttavia, Bulgakov non salva neanche l'opulenta borghesia descritta prima e dopo l'intervento: i personaggi che la incarnano sono crapuloni spregiudicati, ridicoli nei loro vizi e nei loro segreti, dei grassi buffoni che si mascherano di cultura e si scambiano complimenti e smancerie a vicenda. Essi vivono in un ambiente altrettanto finto, un teatro di animali impagliati e barattoli con organi da trapiantare, ma diventano magri e sofferenti nel periodo in cui il signor Pallinov dà loro filo da torcere.
Nonostante la sua brevità, questo romanzo risulta piuttosto pesante perché estremamente denso:  il lettore si sente smarrito di fronte a tanta inquietante assurdità, e paradossalmente trova meno indigesti e quasi confortanti gli strampalati ragionamenti del cane prima e dopo la mutazione in uomo. Evidentemente sta in questo l'allegoria finale e definitiva della demenza dell'umanità, che proletaria o borghese che sia, è capace di toccare il fondo della decenza e della rispettabilità. 

Consigliato a chi l'aveva sempre detto che i cani capiscono più degli uomini.

Cuore di cane
Michail A. Bulgakov
Pillole BUR
Milano 2010
169 pagine

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La strada che va in città


Pubblicato nel 1942, è il primo romanzo di Natalia Ginzburg, che lo firmò con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte. Narra la storia di una ragazza di provincia affascinata dalla città e dalla vita che vi si svolge, della sua crescita come donna e madre, delle scelte che compie e delle loro conseguenze.
Ad una prima intuitiva analisi simbolica, la strada per la città rappresenta il cammino di maturazione compiuto dalla protagonista, ma misura anche la distanza tra il suo mondo di origine e quello a cui ambisce. E' una strada a senso unico, tuttavia: come la giovane Delia, anche gli altri protagonisti restano catturati nelle illusioni cittadine e vivono la permanenza in paese come sofferenza necessaria per poi tornare a percorrere il famoso viale polveroso che li porta verso la libertà. La città è come una tara, un marchio che ciascuno di essi si porta addosso, un vago senso di insofferenza che li condanna a desiderare di più e a non apprezzare ciò che invece possiedono. Non c'è alcuna pretesa di giudizio da parte dell'autrice: i fatti e le sensazioni sono narrati lucidamente ed in modo distaccato, quasi come avvenimenti necessari nell'Italia fascista delle grandi ambizioni covate sotto la brace delle convenzioni sociali.
Il simbolo più forte è infine la strada come illusione di gioventù: anche se tutti i personaggi trovano una collocazione più o meno regolare in città, restano intrisi di un senso di triste e svogliata nostalgia per i tempi spensierati in cui cercavano espedienti e avevano voglia di crescere. Questo segna un ulteriore peggioramento rispetto ai loro precedenti illustri, Gli indifferenti. Mentre Moravia chiude sull'accettazione del compromesso borghese con la vaga speranza di miglioramento, la Ginzburg va oltre e descrive l'inutilità di aver realizzato le proprie aspirazioni, poiché si resta comunque profondamente infelici.

Consigliato a chi non si accontenta mai.

La strada che va in città
Natalia Ginzburg
I libri della domenica
Il Sole 24 ORE
Milano 2011
79 pagine

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Quando le rette diventano curve. Le geometrie non euclidee


Dire che qualcosa è dritto, retto o diretto dà sempre un senso di stabilità e assoluto, nonché di concretezza. Questa sensazione deriva indubbiamente da secoli di dominio della geometria euclidea, che si basa sulla definizione di concetti elementari come punto, retta, superficie e delle relazioni tra di essi. Eppure nell'apparato euclideo c'è una falla: il famigerato quinto postulato che non è mai stato dimostrato né negato.
Ora, la questione apre scenari molto interessanti: esso dice che per un punto esterno ad una retta passa una sola parallela alla retta data. Negli anni tuttavia non è stato possibile negare neanche che ne passino infinite (almeno due, è la dicitura corretta), o che non ne passi nessuna. Da qui nascono altre due geometrie, rispettivamente iperbolica e ellittica, cioè vari modi di vedere il mondo e rappresentarlo. L'idea più affascinante è quella di un universo eterogeneo, in cui cioè coesistono le varie geometrie e la rappresentazione della realtà avviene attraverso la loro integrazione; il ragionamento è coerente con la diversità e  la ricchezza di forme che ci circondano. Un ulteriore vantaggio delle geometrie non euclidee è stato inoltre quello di fornire i modelli e gli strumenti di calcolo per teorie fisiche che altrimenti non avrebbero avuto la forma elegante e chiara con la quale le conosciamo: una su tutte la relatività di Einstein, che si basa sulla geometria di Reimann per spiegare la curvatura della spaziotempo.
Tutto questo nei primi quattro capitoli del libro, ai quali se ne aggiungono altrettanti che invece hanno poco di interessante perché parlano di troppi argomenti senza scendere nel dettaglio né tantomeno darne una panoramica organica. E' vero, le applicazioni della geometria sono molte e disparate, ma ripetere i concetti o girare intorno ad argomenti caldi senza mai affrontarli davvero, non sono certo metodi per accattivarsi la simpatia e l'interesse dei lettori, soprattutto perché si perdono di vista le geometrie non euclidee, cioè l'argomento del saggio.
Dunque, lodevole la scelta dell'argomento, ma dimezzando la lettura si ottengono gli stessi risultati. A quanto pare questo sta diventando il postulato della collana Mondo matematico. Chissà cosa ne avrebbe pensato Euclide!

Consigliato a chi ama le curve morbide.

Quando le rette diventano curve. Le geometrie non euclidee
Joan Gomez Urgellés
Collana Mondo matematico, RBA
Milano 2011
151 pagine

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Pugni


Il giovane Pietro Grossi debutta tra i narratori contemporanei senza mostrare alcuna incertezza, con un trittico di racconti che spiazzano: tre pugni, appunto. Proprio il tema dell'esordio è il filo conduttore di questo agile libro, omaggiato dalla prestigiosa casa editrice Sellerio che lo ha annoverato tra i 20 titoli significativi della collana La rosa dei venti, edita in occasione del suo quarantesimo anniversario di attività.
Tre storie di iniziazione, che parlano della fretta di crescere e della voglia poi di tornare indietro, per paura di essere inadatti, o per stanchezza. Il primo racconto, Boxe, è un omaggio alla nobile arte, simbolo della vita stessa. Il protagonista è un ragazzetto che sa di avere i numeri giusti per essere un campione e cerca conferme nel tanto agognato primo (e unico) incontro, durante il quale impara a suon di pugni dati e ricevuti che il talento e l'affermazione non sono doni naturali come nelle favole, ma vanno integrati dalla consapevolezza e dalla maturità necessaria a gestirli. Il secondo racconto, Cavalli, confronta due fratelli e i loro modi totalmente diversi di crescere, simboleggiati questa volta dall'uso che ciascuno di essi fa del cavallo ricevuto in dono dal padre: uno si spinge fino in città per vivere avventure inenarrabili (ed in effetti si parla di lui solo quando riappare sporadicamente in paese), l'altro resta nella casa paterna a lavorare e a costruire caparbiamente un futuro solido e rassicurante. Il terzo racconto infine, Scimmia, narra della tentazione di sfuggire alle responsabilità e alle delusioni attraverso la pazzia: un amico del protagonista si è messo a fare la scimmia, e davanti a questa amara rinuncia lui non può far altro che sentirsi tentato, e provare a non pensarci. 
La scelta di uno stile asciutto e sincero è lodevole per un esordiente che ha il coraggio di non tradire la propria indole narrativa, proponendo intrecci tutt'altro che facili, personaggi originali ed un linguaggio misurato e non ammiccante. L'opera sarà apprezzata per le riflessioni che propone, non certo per gli sconti che concede. Tra i pregi di Grossi è giusto citare anche la ricchezza delle ambientazioni: serena e introversa la prima, scandita dalle sequenza di colpi sul ring; aperta e di ampio respiro quella di Cavalli, che è una ballata western senza tempo né spazio definiti; decadente e sudata la terza, lucidamente nervosa come fosse un Amleto scritto da John Fante. 
Proprio a causa delle loro diverse impostazioni, risulta difficile giudicare quale sia il migliore dei tre racconti: il consiglio è di goderli così come sono, completando intimamente i finali lasciati volutamente sospesi di fronte alle scelte.

Consigliato ai Peter Pan.

Pugni
Pietro Grossi
Sellerio editore
Palermo 2006
219 pagine

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La Compagnia dei Celestini


Quarto romanzo di Stefano Benni, che già nel 1992 inscenava una satira pungente sull'Italia e sulla sua vocazione alla santità tra disastri, perbenismi e miseri giochi di potere.
La storia si snoda con una doppia trama: quella portante come delirio onirico di quella secondaria, poco elaborata e altamente simbolica, che dà senso al tutto. Occhio-di-gatto è un bambino fuggito dall'orfanatrofio, riacciuffato e mandato in riformatorio, ma è anche una delle incarnazioni del Grande Bastardo, protettore dei barboni, degli orfani e degli spiantati. Questa la trama secondaria sviluppata solo attraverso brevi interludi alla fine di ciascuna delle dieci parti di cui si compone la storia principale, la quale invece narra le peripezie di tre orfani: fuggiti dalle grinfie del loro poco ortodosso tutore Don Biffero, attraversano pericoli, fanno nuovi amici, ne perdono altri ed infine prendono parte al leggendario campionato mondiale di pallastrada. Tra i loro nemici più accaniti c'è appunto il vizioso pretonzolo dell'ordine degli Zopiloti, c'è il capo di stato di Gladonia e addirittura l'esercito; dalla loro parte invece stanno i puri di cuore e gli indigenti, il Grande Bastardo e qualche tocco magico. Su tutta la vicenda aleggia una misteriosa profezia, il cui significato non sarà svelato fino alla fine epico-biblica della vicenda.
Se da un lato è facile trarre una storia per bambini dal romanzo (che difatti ha liberamente ispirato due stagioni di cartoni animati per la TV), dall'altro si è portati a riflettere sul suo pesante taglio politico, in cui il nome dell'Egoarca Mussolardi (che vive su un elicottero privato e possiede dodici televisioni) parla da solo per se stesso e per tutto ciò che rappresenta, sia in termini di critica al presente, che come prospettiva catastrofica di scenari futuri. 
Nessuno dei moltissimi personaggi è particolarmente approfondito, né potrebbe esserlo poiché la storia ha un forte timbro corale dal quale non si può prescindere: a ragione molti hanno pensato di leggervi il duello atavico tra il bene e il male, che prendono corpo in figure bislacche e indefinibili, quali solo la fantasia di Benni può creare. Non tutti i bambini sono buoni e non tutti gli adulti sono antagonisti, sono ammessi redenzione, perdono e vendetta, fantasmi e fast food, ossari e macchine volanti, come in ogni buon dipinto dell'Italia che si rispetti. Eppure nella battaglia finale si trascende dal Belpaese e i simboli si purificano e diventano assoluti, elevando così il romanzo da farsa ridanciana a triste parabola della storia.

Consigliato ai Santi, ai Poeti e ai Navigatori.

La Compagnia dei Celestini
Stefano Benni
Feltrinelli
Milano 1992
286 pagine


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